L’ALLEANZA TERAPEUTICA
Cenni storici e riflessioni sul costrutto.
di Angelo R. Pennella e Maria Teresa Grasso
PREMESSA
Tra la fine dell’Ottocento ed primi anni del Novecento,
si ebbe un grande sviluppo dell’archeologia, non più
circoscritta al lavoro d’archivio e alla ricerca documentaria
ma sempre più impegnata nella raccolta di reperti
e manufatti antichi. In quegli anni si stava infatti consolidando
l’idea che la conoscenza del passato dell’uomo
fosse possibile solo attraverso l’integrazione di diverse
discipline che, pur nella loro specificità, potevano però
convergere sul medesimo fine: la conoscenza dell’uomo.
Non deve quindi stupire se Freud abbia correlato, dapprima
in Etiologia dell’isteria e, successivamente, in Studi
sull’isteria, il lavoro dell’analista a quello dell’archeologo:
la metafora archeologica freudiana esprime infatti
lo zeitgeist del tempo ed evidenzia alcuni aspetti comuni
alle due discipline, come la necessità di considerare
con attenzione gli elementi marginali raccolti nel corso
dell’attività e l’orientamento verso una conoscenza di
tipo storico-antropologico.
• Dal punto di vista dell’archeologo, i “materiali” rinvenuti sia alla
superficie sia negli scavi non interessano infatti per la loro natura
e costituzione, ma perché parlano delle primitive tecnologie e
quindi di come questi stessi materiali furono lavorati e per quale
scopo. (Petrella, 1997, p. 83)
Nel suo paragonare l’analista all’archeologo, Freud evidenzia
che il lavoro di quest’ultimo non può esaurirsi
nell’osservazione di ciò che è rimasto del passato – si
pensi ai resti di cinte murarie o acquedotti – né limitarsi
alla raccolta delle informazioni che possono essere fornite
dagli abitanti del luogo: è necessario che l’archeologo
svolga anche un’accurata attività di scavo perché
grazie ad essa
i reperti archeologici si spiegheranno da soli: resti di mura si
dimostreranno appartenenti al periplo di un palazzo o di una
camera del tesoro; dalle rovine delle colonne sarà possibile ricostruire
un tempio, mentre le numerose iscrizioni scoperte, bilingui
nei casi più fortunati, riveleranno un alfabeto e una lingua.
(Freud, 1896, p. 334)
La cosa interessante di questa metafora è che, sebbene
Freud abbia sottolineato l’importanza e la priorità dello “scavare analitico”, non ha tuttavia dimenticato che
l’analista – come l’archeologo – non può fare a meno
di ciò che il paziente – le popolazioni autoctone – può
riferire: anche se spesso ignaro di ciò che il “terreno”
nasconde, l’analisi è una prassi concreta che non può
essere compiuta senza un’efficace collaborazione tra il
terapeuta-archeologo ed il paziente-indigeno (Petrella,
1997). Gli scavi devono cioè necessariamente coinvolgere
le popolazioni del luogo – non dimentichiamoci
che spesso è tra loro che si reclutano gli operai per i lavori
di escavazione – a cui si devono fornire sia gli strumenti
più adatti al lavoro, sia la motivazione a svolgere
l’attività di recupero.
È evidente che questa metafora ci sollecita a riflettere
su un tema centrale dell’intervento clinico, quello della
relazione che si organizza nella coppia terapeutica e, in
modo particolare, della partecipazione a cui è chiamato
il paziente.
ALLA RICERCA DI UNA DEFINIZIONE
L’idea di attendersi dal paziente un’attiva collaborazione
al processo è storicamente collegata a quel particolare
fenomeno relazionale che Freud definì transfert .
Una volta scoperto il ruolo svolto da quest’ultimo in
psicoterapia, non solo come resistenza agita dal paziente
contro il procedere del lavoro analitico ma anche
e specialmente quale fattore determinante il successo
del trattamento, Freud (1912) sottolineò la necessità di
distinguere e trattare in modo differenziato la traslazione
«positiva» da quella «negativa», i sentimenti amorevoli
esperiti dal paziente nei confronti dell’analista da
quelli libidici od ostili.
• La traslazione positiva si scompone a sua volta in traslazione
di sentimenti amichevoli o affettuosi, capaci di pervenire alla
coscienza, e in traslazione delle propaggini di tali sentimenti
nell’inconscio. […] la traslazione sul medico è [dunque] idonea
alla resistenza nella cura solo se si tratta di traslazione negativa
o di traslazione positiva di impulsi erotici rimossi. Se «eliminiamo
» la traslazione rendendola cosciente, non facciamo altro che
distogliere queste due componenti dell’atto emotivo dalla persona
del medico; l’altra componente capace di giungere alla coscienza
e irreprensibile, continua a sussistere ed è in psicoanalisi
portatrice di successo, esattamente come in altri metodi di cura.
(Freud, 1912, p. 195)
L’instaurazione di un rapporto di collaborazione con il paziente da parte dell’analista fu quindi considerato
da Freud (1913) un pre-requisito necessario allo sviluppo
del processo terapeutico, ma anche un importante
obiettivo – sia pure iniziale – a cui l’analista deve tendere.
• La prima meta del trattamento rimane quella di legare il paziente
alla cura e alla persona del medico. A questo scopo non
occorre far altro che lasciargli tempo. Se gli si dimostra un interesse
serio, se si eliminano accuratamente le resistenze che
compaiono all’inizio e si evitano passi falsi, il paziente sviluppa
da solo tale attaccamento ed inserisce il medico fra le imagines
di quelle persone dalle quali è stato abituato a ricevere del
bene. Naturalmente ci si può giocare questo primo successo se
dall’inizio si adotta un punto di vista che non sia quello dell’immedesimazione,
per esempio un punto di vista moraleggiante,
oppure se ci si atteggia a rappresentante o mandatario di una
parte, per esempio dell’altro membro della coppia coniugale e
simili. (Freud, 1913, p. 425)
Elemento portante della concettualizzazione di Freud è
quindi la convinzione, peraltro coerente con la sua prospettiva
epistemologica e teorica, dell’esistenza di una
chiara contrapposizione tra le “parti” mature dell’individuo
ancorate alla realtà, su cui l’analista può e deve far
leva, e quelle infantili ed irrealistiche che costituiscono
l’oggetto dell’intervento terapeutico.
• Quando qualcuno, che per il resto è padrone di sé, soffre a causa
di un conflitto interno che non è in grado di risolvere da solo, e si
rivolge allora allo psicoanalista, gli descrive la propria sofferenza
e lo prega di aiutarlo. In questo caso il medico lavora solidamente
con una parte della personalità psicologicamente dimidiata
contro l’altra parte con cui essa è in conflitto. Situazioni diverse
da questa sono più o meno sfavorevoli per l’analisi. (Freud, 1920,
p. 144)
Nei suoi lavori, Freud utilizzò dunque il concetto di transfert
da un lato per riferirsi alla capacità del paziente di
instaurare un rapporto di stima e collaborazione con il
terapeuta e di condividere con lui i possibili obiettivi
del trattamento, dall’altro per indicare gli antichi pattern
emozionali che il paziente riattiva nei confronti
dell’analista e che possono configurarsi come un ostacolo
allo sviluppo della terapia.
L’uso del medesimo termine, sia pure con aggettivazioni
diverse, per indicare differenti aspetti della relazione
analitica è alla base del consistente sforzo definitorio
che ha caratterizzato il mondo psicoanalitico dagli anni
Trenta fino agli anni Sessanta e che, sia pure in modo
meno consistente, è ancora oggi vivo (Lingiardi, Colli,
2003).
Limitandoci solo ad alcuni tra i contributi proposti in
questo lungo lasso di tempo, possiamo partire dal lavoro
di Richard Sterba (1934, 1940 cit. in Sandler, Dare,
Holder, 1973), in cui si sottolinea la necessità di sviluppare
nel paziente una specifica capacità di distinguere
gli elementi psichici focalizzati sulla realtà da quelli che
non lo sono. Fin dall’inizio del lavoro analitico, il paziente
dovrebbe essere incoraggiato a «co-operare» con lo
psicoanalista contro qualcosa (il sintomo, la difesa, la psicopatologia) che si trova in lui e che è all’origine del
suo disagio. Sterba, in altri termini, ipotizza l’attivazione
di una scissione terapeutica dell’Io tesa a promuovere
la differenziazione tra una parte “osservante” ed una
parte “esperente”. Con il progredire del trattamento, il
paziente tenderebbe infatti ad identificarsi con l’atteggiamento
dell’analista, acquisendo così sia una migliore
comprensione degli “strumenti” utilizzati nel lavoro clinico,
sia un consolidamento della propria motivazione
all’analisi.
In sostanza, Sterba enuclea dalle affermazioni freudiane sia l’idea dello sdoppiamento (personalità dimidiata),
connotandola come scissione, sia quella relativa alla capacità
del paziente di auto-osservare ed auto-criticare i
propri conflitti interni, elemento ritenuto un importante
criterio tecnico di indicazione terapeutica (Thomä,
Kächele, 1985).
Negli anni Quaranta si colloca il noto contributo di Otto
Fenichel (1941) alla tecnica psicoanalitica. In questo lavoro
egli utilizza l’espressione «transfert razionale» per
indicare quella parte del transfert positivo che, inibito
a raggiungere la meta, si configura come un fattore
determinante per l’efficacia dell’analisi. In linea con la
prospettiva freudiana, ma anche con quanto affermato
da Sterba, Fenichel sottolinea il valore degli elementi di
realtà presenti nella situazione terapeutica e la necessità
di distinguere quella parte dell’Io che ragiona e giudica
da quell’altra parte che agisce le emozioni. L’efficacia
del lavoro interpretativo dell’analista si fonderebbe
pertanto sulla capacità di «isolare» la parte razionale
dell’Io da quella ancorata a vissuti sottratti a suo tempo
alla coscienza.
Un aspetto interessante – e, per certi versi, anche innovativo
– della teorizzazione di Fenichel può essere rilevato
nell’importanza da lui attribuita all’atmosfera della
relazione analitica. Fenichel riconosce infatti all’umanità
dell’analista un ruolo decisivo per indurre il paziente
ad accettare l’idea di sperimentare qualcosa che in precedenza
aveva – sia consciamente che inconsciamente
– allontanato dalla propria consapevolezza. In qualche modo, il tentativo di Fenichel sembra teso a bilanciare la
tendenza dell’epoca ad accettare ed applicare in modo
acritico ed incondizionato alcune delle metafore freudiane
che potevano essere intese come un invito alla
freddezza e al distacco emotivo, obliterando così quanto
lo stesso Freud aveva peraltro affermato rispetto alla
necessità di personalizzare il procedimento:
mi sembra opportuno presentare queste regole come «consigli»
e non pretendere che vengano accettate incondizionatamente.
La straordinaria diversità delle costellazioni psichiche di cui siamo
costretti a tenere conto, la plasticità di tutti i processi psichici
e la quantità dei fattori che si rivelano di volta in volta determinanti,
sono tutti elementi che si oppongono ad una standardizzazione
della tecnica e fanno sì che un procedimento peraltro
legittimo risulta talvolta inefficace, mentre un procedimento solitamente
difettoso vada una volta ogni tanto a buon fine. (Freud,
1913, p. 407)
Un’altra importante tappa del percorso storico di cui
stiamo parlando può essere individuata nel lavoro di
Alexander e French (1946) e nel concetto di «esperienza
emozionale correttiva».
Questa espressione intendeva indicare l’insieme delle
esperienze emozionali che il paziente vive nell’ambito
della relazione terapeutica e che costituiscono una
componente essenziale del suo cambiamento. Per Alexander
e French è fondamentale che il terapeuta sia in
grado di fornire al paziente una situazione nuova, atta a
disconfermare la sua percezione distorta della realtà.
• Il semplice ricordo di un evento intimidatorio o demoralizzante
non cambia l’effetto di tale esperienza. Solo una esperienza correttiva
può annullare l’effetto di quella vecchia. Questa nuova
esperienza correttiva può essere fornita dalla relazione di transfert,
da nuove esperienze di vita, o da entrambe. (Alexander,
French, 1946, p. 32)
In tale prospettiva, l’analista deve quindi utilizzare se
stesso come modello alternativo da proporre al paziente:
dopo aver analizzato e compreso la sua patologia,
l’analista deve cioè assumere – in modo attivo e consapevole
– ruoli e comportamenti che non confermino
le percezioni e le aspettative distorte del paziente.
Il terapeuta deve, in altri termini, impegnarsi ad esprimere
un contro-atteggiamento che smonti i pregiudizi
del paziente modificandone l’esame di realtà grazie ad
un confronto con un’esperienza relazionale diversa da
quella esperita nel passato (Lingiardi, 2002).
Questa concezione del trattamento, se da un lato ha
consentito ad Alexander di criticare alcuni assunti me metodologici
della psicoanalisi “ortodossa” – si pensi alla
metafora dello “schermo bianco” –, precorrendo quindi
posizioni assunte successivamente dalla psicoanalisi
relazionale ed intersoggettivista, dall’altro lo ha spinto
però anche a proporre un atteggiamento francamente
manipolatorio nei confronti del paziente (Gill, 1994). Il
«principio di flessibilità» di cui parla Alexander (1946) fa
infatti riferimento ad alcune importanti modifiche della
tecnica standard, prevedendo, tra l’altro, la possibilità di
alterare la frequenza delle sedute, di fornire al paziente
direttive sulla sua vita quotidiana, di assumere atteggiamenti
tesi a rispondere ai bisogni espressi dal paziente.
Al di là della sua apparente chiarezza – che evoca, in
modo sospetto, la logica popolare del “chiodo scaccia
chiodo” – la posizione di Alexander suscita però alcune
perplessità: in primo luogo perché essa tende, di fatto, a
svuotare il comportamento di ogni implicazione inconscia,
rischiando quindi di esaurirlo sul piano manifesto
della comunicazione; in secondo luogo, perché attribuisce
all’intervento terapeutico una connotazione chiaramente
“ortopedica”. L’aspetto centrale del trattamento
diventa, infatti, la compensazione del deficit, spesso attuata
a svantaggio dell’esplorazione e dell’elaborazione
emozionale da parte del paziente.
C’è da tenere presente, infatti, che lo sforzo di configurare
la relazione terapeutica come modello alternativo
può colludere con il bisogno del paziente di non
confrontarsi con situazioni ed affetti dolorosi connessi
alla sua esperienza, rinforzando così la convinzione –
conscia ed inconscia – che si tratti di elementi troppo
terribili per poter essere ricordati, narrati e rielaborati
(Casement, 1985). Riprendendo in questo Gill (1994), è
dunque possibile affermare che, sebbene Alexander ab-
proprio da un deficit nella fiducia di base dell’individuo
nei confronti dell’altro.
In tale prospettiva, e considerando quanto una psicoterapia
possa evocare alcuni aspetti del rapporto madrebambino
(Di Sauro, Pennella, 2005), per la Zetzel assume
un ruolo fondamentale la personalità e le caratteristiche
dell’analista, ma anche il suo comportamento con il
paziente, specie nella fase iniziale del trattamento.
In sintesi, il concetto di «alleanza terapeutica» costituisce
un approfondimento in termini relazionali delle
posizioni espresse da Fenichel e Sterba. La Zetzel parte
infatti dai processi di identificazione attuati dal paziente
nei confronti del proprio analista, ma enfatizza il
ruolo effettivamente espresso dal terapeuta, mettendo
così in discussione l’idea di un atteggiamento anonimo
ed impersonale a favore di una figura più disponibile
ed attenta, in grado di sviluppare ed esprimere partecipazione
emotiva all’interno della relazione. C’è da dire
tuttavia che la Zetzel continua a considerare l’alleanza
terapeutica come un fenomeno sostanzialmente di tipo
derivato, cosa che ci spinge a farla comunque rientrare
in una prospettiva classica del transfert (Thomä, Kächele,
1985) e non in quella più moderna di tipo relazionale
ed intersoggetivista.
In ogni caso, nel momento in cui si considera la fiducia
come un fattore essenziale per poter avviare e mantenere
la collaborazione tra il paziente ed il terapeuta,
non ci si limita però a proporre solo un nesso di tipo
storico tra il passato (le relazioni pregresse del paziente
con le sue figure di accudimento) ed il presente (la relazione
terapeutica), ma si suggerisce anche l’idea di un
collegamento tra caratteristiche e modalità di sviluppo
dell’alleanza terapeutica e stili di attaccamento presenti
nella coppia terapeutica, ma su questo avremo modo
di tornare nel prossimo paragrafo.
A distanza di circa un decennio dal lavoro della Zetzel, si
colloca il contributo di Ralph Greenson (1965), uno dei
più autorevoli esponenti della psicoanalisi statunitense
dell’epoca.
Pur riconoscendo il valore e le affinità delle proprie posizioni
con il pensiero di Sterba (1934), Fenichel (1941) e
Zetzel (1956), Greenson ritenne però che le espressioni
utilizzate fino ad allora non sottolineavano adeguatamente
la dimensione «razionale» e «costruttiva» con cui
il paziente può partecipare al processo terapeutico.
Greenson (1965) propose pertanto il concetto di «alleanza
di lavoro» perché avrebbe il vantaggio di marcare
in modo specifico le componenti più mature e razionali
del paziente, quelle cioè che gli consentono di mante-
nere un efficiente rapporto con l’analista anche nelle
situazioni in cui si sviluppa un’intensa nevrosi di transfert.
• L’essenza dell’alleanza di lavoro è costituita dalla motivazione
del paziente a vincere la sua malattia, dal suo senso di infelicità,
dal desiderio cosciente e razionale di collaborare e dalla sua capacità
di seguire le consegne e gli insight proposti dall’analista.
La vera alleanza si costituisce prevalentemente tra l’Io razionale
del paziente e l’Io analizzante dell’analista […] e il mezzo che
la rende possibile è la parziale identificazione del paziente con
l’approccio dell’analista nei suoi tentativi di comprendere il
comportamento del paziente. (Greenson, 1965, p. 163)
In modo ancora più immediato, il concetto di «alleanza
di lavoro» rinvia dunque al
rapporto umano non nevrotico, razionale e ragionevole che il
paziente instaura con il proprio analista e che gli consente di
operare nella situazione analitica in modo costruttivo (Greenson,
Wexler, 1969, p. 30).
C’è da notare che il lavoro di Greenson si avvia con una
precisa delimitazione del concetto di transfert in cui, secondo
l’Autore, dovrebbero essere incluse solo quelle
reazioni che costituiscono ripetizioni del passato e che
appaiono quindi inappropriate al presente. Parimenti,
Greenson (1965, p. 163) ridefinisce anche il concetto di
nevrosi di transfert riconoscendola esclusivamente in
quelle situazioni in cui «l’analista e l’analisi divengono
la preoccupazione centrale della vita del paziente».
È proprio a seguito di tali precisazioni che Greenson è in
grado di proporre e differenziare il concetto di alleanza
di lavoro da quello di transfert, sebbene, a onor del vero,
egli stesso riconosca che la
distinzione fra nevrosi di transfert e alleanza di lavoro non è assoluta,
dal momento che l’alleanza di lavoro può comprendere
anche elementi della nevrosi infantile che alla fine dovranno essere
analizzati. Ad esempio, il paziente può lavorare bene per un
certo tempo allo scopo di ottenere l’amore dell’analista, e ciò in
seguito provocherà forti resistenze; oppure la sopravvalutazione
della personalità e delle capacità dell’analista può essere utile
all’alleanza di lavoro all’inizio dell’analisi, per diventare però alla
fine fonte di forti resistenze. Non soltanto la nevrosi di transfert
può ostacolare l’alleanza di lavoro, ma la stessa alleanza può venire
usata impropriamente per scopi difensivi (Greenson, 1965,
p. 164).
Secondo Greenson (1965), si configurano pertanto tre
livelli di relazione: a) il transfert; b) l’alleanza di lavoro; c)
la relazione reale.
Transfert ed alleanza di lavoro sarebbero distinguibili – sempre secondo Greenson – se ci si ancora alla relazione
reale, intendendo con questo termine, ciò che nel
paziente appare orientato realisticamente o che risulta
autentico e genuino.
Giungendo ora agli anni Ottanta, un ultimo contributo
su cui riteniamo importante soffermarci è quello di
Lester Luborsky. Come è noto, si deve a questo Autore
il concetto di CCRT (Tema Relazionale Conflittuale Centrale),
illustrato nel 1984 in un suo apprezzato manuale
sul trattamento supportivo-espressivo.
Ai fini del nostro discorso, il lavoro di Luborsky è particolarmente
utile non solo perché conferma la stretta
connessione clinica e concettuale esistente tra transfert
e alleanza terapeutica , ma anche perché in esso si propone
una declinazione piuttosto chiara ed operativa di
questa ultima.
Punto di avvio fu l’esplicito superamento della contrapposizione
tra supporto ed interpretazione. Luborsky
(1984, p. 59) affermò, infatti, che
ogni psicoterapia ha componenti di sostegno, perfino le più
espressive, dal momento che il sostegno è una conseguenza comune
e naturale dell’instaurarsi di una relazione terapeutica. Il
sostegno può derivare, e di solito deriva, da aspetti intrinseci al
trattamento, come la collaborazione del terapeuta e del paziente
nel tentativo di aiutare il paziente a raggiungere i suoi obiettivi.
È tuttavia necessario ricordare che Luborsky sottolineò
però la necessità di un uso personalizzato degli interventi
supportivi, in funzione delle caratteristiche del paziente
– si pensi a soggetti «con disturbi del carattere e
sintomi allo plastici disgreganti, con una bassa tolleranza
dell’ansia e difficoltà ad essere riflessivi» (Luborsky,
1984, p. 60) – ma anche del processo terapeutico.
Comunque, se si considera «l’alleanza d’aiuto» – espressione
utilizzata da Luborsky – come un «insieme di fenomeni
apparentemente simili che riflettono la misura
in cui il paziente esperisce la relazione con il terapeuta
come utile o potenzialmente tale» (Luborsky, 1984,
p. 64), risulta evidente che tale esperienza può essere
connessa, da un lato, alla capacità del paziente di vivere
l’interazione con il terapeuta come una relazione di
aiuto, dall’altro, a ciò che il terapeuta effettivamente fa
nell’ambito dell’interazione.
In effetti, Luborsky (1984) identifica due tipi di alleanza:
il primo (tipo 1) fa riferimento ad una situazione relazionale
in cui il paziente riceve, per così dire, passivamente
l’aiuto dello psicoterapeuta; il secondo (tipo 2) rinvia
invece ad una situazione «in cui paziente e terapeuta
stanno lavorando insieme in uno sforzo comune» (Lu-
borsky, 1984, p. 65). Entrambi i tipi di alleanza descritti
da Luborsky sono stati valutati con apposite scale ed
hanno dimostrato una buona predittività dell’outcome
del trattamento.
ALCUNE RIFLESSIONI SUL CONCETTO DI
ALLEANZA TERAPEUTICA
Come si è detto, il costrutto di alleanza terapeutica
suscitò un forte interesse negli esponenti della psicologia
dell’Io, riuscendo gradualmente a coinvolgere sia
psicoanalisti appartenenti ad aree diverse (si cfr. tra gli
altri Meltzer, 1967) che psicologi di altri orientamenti.
In effetti, l’alleanza terapeutica è un costrutto estremamente
interessante per la prassi clinica ed è pertanto
comprensibile che abbia sollecitato una grande quantità
di riflessioni, ma anche una impressionante mole di
ricerche empiriche.
Ciononostante, e sebbene si consideri attualmente l’alleanza
uno dei predittori più significativi dell’outcome
terapeutico, questo grande lavorio di ricerche cliniche
ed empiriche non è riuscito però a chiarire alcuni dei
problemi che questo costrutto pone.
Limitandoci in questa sede solo ad enumerare alcuni,
c’è innanzitutto da dire che ancora oggi non si capisce
fino a che punto l’alleanza terapeutica costituisca in sé
una componente curativa della terapia o se sia invece
la relazione tra i soggetti coinvolti a strutturare quel
particolare humus interpersonale che consente ad altri elementi di agire sul paziente in termini trasformativi.
Un’altra questione riguarda il carattere stesso dell’alleanza.
Per dirla in altri termini: si tratta di un “elemento”
che c’è o non c’è in una relazione terapeutica o la collaborazione
è un qualcosa che si costruisce e si modifica
nel tempo? Se è infatti possibile pensare che
la formazione di una relazione di fiducia e l’emergere di una posizione
collaborativa sono probabilmente dei requisiti comuni
alla fase iniziale della maggior parte delle terapie […] con l’evolversi
della relazione e l’aumentare della sua complessità, e con
l’esposizione da parte del paziente di aspetti sempre più personali,
è [però] ragionevole credere che l’accordo sugli obiettivi e
i compiti coinvolga dei processi più complessi e delicati (De Bei,
2006, p. 535).
In qualche modo correlata, c’è anche la questione relativa
agli obiettivi.
È infatti ovvio pensare che l’alleanza implichi una preliminare
condivisione ed un accordo su ciò che deve essere
raggiunto con il lavoro terapeutico. In effetti – ma
questo lo si può constatare consultando un qualsiasi
vocabolario – il termine alleanza indica un patto con cui
due o più soggetti, ad esempio degli stati, si impegnano
a prestarsi reciprocamente aiuto e sostegno per conseguire
obiettivi comuni, ad esempio di tipo politico .
Ma fino a che punto questo è valido anche in ambito
psicoterapeutico?
Nonostante possa apparire banale, la questione in realtà
non lo è affatto: la definizione degli obiettivi dell’intervento
non è infatti avulsa dalla prospettiva teorica in
cui ci si colloca e con cui si “legge” la problematica del
paziente. Pur con una discutibile generalizzazione, se si
ritiene ad esempio che il sintomo – si pensi ad una fobia
– abbia una valenza simbolica e che sia quindi espressivo
d’altro, è ovvio che non si potrà semplicemente aderire
all’obiettivo del paziente, il quale si limita a chiedere
l’eliminazione di quella fobia.
I pazienti, d’altro canto, possono proporre obiettivi regressivi:
possono cioè desiderare di essere più aggressivi
– si pensi a chi vorrebbe essere in grado di colpire,
anche fisicamente, un potenziale antagonista – oppure
di mantenere o riacquistare situazioni di dipendenza
– si pensi a chi, di fronte ad una separazione, si pone
l’obiettivo di ripristinare la relazione nonostante essa
possa risultare del tutto fallimentare. In una prospettiva
dinamica, il terapeuta si pone il compito di rileggere e
riformulare gli obiettivi proposti dal paziente al fine di
identificare e proporre un obiettivo progressivo per il
lavoro terapeutico (Book, 1998).
Ma questo implica che gli obiettivi dell’intervento in
realtà si costruiscono nel corso dell’intervento stesso e
non sono dati fin dall’inizio: come è possibile però parlare
di alleanza se i due soggetti hanno obiettivi – più o
meno parzialmente – diversi ?
Interessante, in questa prospettiva, il lavoro di Safran
e Muran (1996; 2000) che hanno inquadrato l’alleanza
come un processo di negoziazione intersoggettiva che avviene, in modo continuo e dinamico, nel corso dell’interazione
terapeutica. L’alleanza terapeutica, in altri termini,
non sarebbe cioè un oggetto descrivibile in termini
discreti, quasi si trattasse di qualcosa che c’è o non
c’è, ma di un processo che si sviluppa tra il paziente ed
il terapeuta.
Safran e Muran sottolineano pertanto l’importanza di
monitorare in modo sistematico l’alleanza, esplorandone
nel qui ed ora lo sviluppo e le rotture. Queste ultime
sono, secondo i due autori, i momenti centrali ed inevitabili
del trattamento ed avviano una particolare «danza
interpersonale» che coinvolge sia il terapeuta che il
paziente ed in cui si evidenziano i modelli disfunzionali
di questo ultimo. Il modo cioè in cui il paziente «danza
» nelle occasioni in cui l’accordo di lavoro è messo in
discussione sarebbe orientato dalle rappresentazioni e
dalle aspettative che questi ha nei confronti di se stesso
e degli altri, incluso il terapeuta.
In questo senso, l’esplorazione delle rotture può fornire
al terapeuta importanti elementi rispetto alle problematiche
del paziente, ma si configura anche come
un’importante esperienza emozionale correttiva che
può aiutarlo a sviluppare una nuova modalità relazionale.
Intesa in questo modo, si propone – o se si vuole si ripropone
– il problema della effettiva differenziazione
del costrutto di alleanza terapeutica da quello di transfert
nella sua accezione più attuale (Pennella, 2005a).
Non a caso, uno dei temi su cui si sviluppò rapidamente
il confronto, e su cui ci soffermeremo per chiudere
il nostro discorso, riguardava proprio la possibilità di
distinguere chiaramente – come affermavano gli psicologi
dell’Io – la relazione “reale” da quella “transferale”
(Battistini, 2004), in sostanza, l’alleanza terapeutica dal transfert.
Riprendiamo, a questo punto, quanto si è già detto cercando
di focalizzare meglio la questione.
L’idea di fondo era che la collaborazione del paziente al
trattamento potesse avvenire nel momento in cui – per
dirla con Sterba – si riusciva a promuovere una scissione
terapeutica dell’Io, inducendo la parte “osservante” ad
aderire alla “lettura” degli eventi proposta dall’analista.
Basta poco per rendersi però conto che questo ha senso
solo se si dà per scontato che sia l’analista ad avere in
mano la verità, in caso contrario non ci si troverebbe di
fronte ad un intervento terapeutico, ma ad una relazione
fondata sul plagio.
Chi difendeva la validità teorica del concetto di alleanza,
partiva proprio dalla convinzione che esistesse una
realtà oggettiva a cui l’analista poteva ancorarsi nel
momento in cui era chiamato a valutare le distorsioni
transferali agite dal paziente all’interno della relazione.
In effetti, è concettualmente possibile enucleare il transfert
come ripetizione coatta del passato in un presente
che non vi ha nulla a che fare solo se si ritiene di poter
scindere il “là ed allora” dal “qui ed ora”, la fantasia dal
dato oggettivo. Esemplificativa, in questo senso, la posizione
di Greenson in cui la differenziazione tra transfert,
alleanza di lavoro e relazione reale si fondava proprio
sulla possibilità, da parte del terapeuta, di decidere
quali richieste e comportamenti del paziente fossero
autentici ed orientati in termini realistici.
In sostanza, se da un lato si assumeva l’esistenza di una
realtà oggettiva, dall’altro si dava per scontato che l’analista
dovesse esserne in qualche modo il detentore.
La questione è che la “realtà” utilizzata dal terapeuta
quale parametro di riferimento per valutare il paziente,
di fatto non è meno “soggettiva” della realtà proposta
dal paziente stesso. Oggi si dà infatti per scontato che
la percezione è sempre orientata da sistemi categoriali
socialmente condivisi, così come da un insieme di parametri
– termine che qui utilizziamo in senso piuttosto
lato – che l’individuo ha strutturato sulla base delle proprie
pregresse esperienze interpersonali.
Senza entrare nel merito di questioni epistemologiche
(si cfr. Grasso, Cordella, Pennella, 2003; Pennella, 2005b),
in questa sede ci basta notare che la realtà non è permanente
ed esistente in sé, indipendente cioè dall’uomo
che la osserva – così come affermava il paradigma
positivista sotteso alla psicoanalisi classica –, ma è sempre
in qualche modo co-determinata dalle caratteristiche
biologiche, culturali, sociali e psicologiche dell’osservatore.
Le fenomenologie che emergono nella situazione terapeutica
non possono cioè essere attribuite solo al
paziente perché il terapeuta, nel momento in cui esse
si sviluppano, è parte del “sistema” o “campo” che egli
stesso concorre nel determinare. In altri termini, nel
momento stesso in cui è lì ed agisce – rimanendo, ad
esempio, in silenzio o riorganizzando la narrazione del
paziente con una interpretazione – co-costruirà sia il
materiale clinico che l’andamento della relazione. In
sostanza, paziente e terapeuta partecipano entrambi alla costruzione – sia pure con modalità e consistenze
diverse – di ciò che si sviluppa nella situazione terapeutica
e non è quindi possibile pensare che uno qualsiasi
di loro possa valutare in termini obiettivi e “distaccati”
ciò che accade: qualsiasi valutazione non può cioè che
essere radicata nella “storia” ed avere un valore relativo
in quanto espressione solo di una parte del sistema.
Le difficoltà a distinguere il costrutto di alleanza terapeutica
da quello di transfert, ciò che appartiene al
presente da quello che riguarda il passato, è quindi riconducibile
al fatto che non vi è alcuna realtà oggettiva
a cui ancorarsi per effettuare una tale differenziazione.
Per dirla con Modell (1990), nella situazione terapeutica
confluiscono «livelli multipli di realtà» che appaiono,
per certi versi, tutti contemporaneamente passati ed
attuali, falsi e reali.
La terapia è infatti un situazione complessa in cui tendono
a fondersi e a confondersi
svariate dimensioni, consce ed inconsce, reali e fantasmatiche.
Come ci potremmo aspettare, le realtà sono influenzate in vario
grado dalle fantasie e dai ricordi inconsci […] di entrambi i partecipanti;
la dimensione della fantasia è evocata, di volta in volta,
in maggiore o minor misura, da aspetti di queste realtà (Langs,
1973-74, p. 417).
Da quanto detto, riteniamo sia evidente che il costrutto
di alleanza terapeutica può avere senso solo all’interno
di un particolare paradigma teorico ed epistemologico.
In effetti, esso è nato nell’ambito della psicologia dell’Io
e in un momento storico in cui nella psicoanalisi si contrapponeva
il processo di interpretazione-insight alla
dimensione relazionale. Allorquando il paradigma di riferimento
si è modificato, abbandonando l’ottica positivista
classica a favore di una prospettiva costruttivista e
relazionale, il concetto di alleanza terapeutica, con il suo
tentativo di differenziare le componenti transferali da
quelle “reali”, ha iniziato a perdere il suo appeal clinico
(Atwood, Stolorow, 1984).
A differenza infatti di chi si colloca in una prospettiva
uni-personale e che concepisce l’alleanza terapeutica
come l’esito di una graduale identificazione del paziente
con l’analista e con il suo metodo interpretativo – individuando
pertanto nelle caratteristiche di personalità
del paziente il fulcro della questione – chi si colloca in
una prospettiva bi-personale ritiene che l’alleanza terapeutica
si fondi sul costante impegno del terapeuta a
comprendere il significato delle espressioni e degli stati
affettivi del paziente e a riconoscere la propria partecipazione
anche alla genesi dei momenti di crisi e di rottura
del rapporto di collaborazione.
Si assume, in sostanza, che il terapeuta abbia sempre
una posizione interna e non esterna alla soggettività
del suo interlocutore e si sottolinea che l’alleanza si fonda
anche sulla capacità dell’analista di accettare come
valida la realtà percettiva del paziente (Battistini, 2004),
rinunciando all’illusione di essere l’unico depositario
della realtà.
• Una volta che tutta la situazione analitica viene concepita in un’ottica bi-personale e che la qualità e la regolazione della
relazione analitica diventano temi centrali della teoria e della
tecnica (sostituendo la centralità che precedentemente aveva
l’interpretazione), viene in qualche modo a cadere l’esigenza di
disporre di un costrutto specifico come quello di alleanza terapeutica
– un costrutto che invece era apparso necessario in una
fase in cui gli aspetti relazionali venivano sottovalutati, ignorati,
oppure negati (Ponsi, 2002, p. 79).
Ma tutto questo non porta forse a sovrapporre il concetto
di alleanza terapeutica a quello di relazione terapeutica?
Se si tratta di un processo di continua negoziazione
in cui il terapeuta porta le proprie caratteristiche
personali e professionali ed in cui non esiste una realtà
oggettiva ma una realtà che si riconosce e si costruisce
e su cui si sviluppa gradualmente l’accordo di entrambi,
cosa ci consente di differenziare concettualmente i due
costrutti?
Da queste insieme di considerazioni è nato l’interesse
ad approfondire le modalità con cui i terapeuti vivono
ed utilizzano il concetto di alleanza terapeutica nella
loro pratica clinica. Seguendo una prospettiva squisitamente
psicodinamica, sono infatti proprio le fantasie
che gli psicoterapeuti elaborano rispetto a tale costrutto
ad orientare il loro intervento clinico.
L’indagine di cui parleremo nel nostro prossimo contributo
è stata condotta nell’ambito di un dottorato di
ricerca e si è sviluppata in tre anni, coinvolgendo cinquantacinque
psicologi che praticano la professione
psicoterapeutica e trenta studenti dell’ultimo anno del
corso quinquennale di Psicologia Clinica dell’Università
“La Sapienza” di Roma. La ricerca, che rinvia anche
alle attività svolte dalla cattedra di Psicologia Clinica
del prof. Carli, ha comportato l’uso di strumenti quali il
WAI-O (Working Alliance Inventory) di Horwath (1989),
considerato a livello internazionale uno strumento in
grado di monitorare l’andamento della relazione terapeutica.
Questo strumento è stato utilizzato come una
sorta di “pretesto” per analizzare le fantasie elaborate
dagli psicoterapeuti nei confronti dell’alleanza terapeutica.
In qualche modo, la ricerca si è proposta come una
relazione, un’alleanza appunto, tra ricerca e clinica, tra
teoria e pratica.
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