DARE E DARSI TEMPO:La tecnica come variabile del tempo, il tempo come prerogativa per la costruzione di una relazione

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DARE E DARSI TEMPO

La tecnica come variabile del tempo, il tempo come prerogativa per

la costruzione di una relazione

di Nicolas Caldognetto

 

Quello che presento e un caso clinico affrontato

durante il tirocinio in un Servizio per Tossicodipendenti,

dove la riuscita del percorso

psicoterapeutico si e concentrata nella nostra

capacità, mia e del paziente, di stare nel Tempo.

  1. Introduzione

Costruire e vivere un percorso psicoterapeutico con

una persona tossicodipendente è molto complesso e

delicato sia da un punto di vista meramente tecnico

che soprattutto emotivo/controtransferale. Le persone

tossicodipendenti percepiscono dentro di se un

nemico, una passione distruttiva, che collegata saldamente

alla negazione della loro identita, non consente

loro la costruzione di una relazione con l’altro. Una

condizione che li porta appunto ad essere prigionieri

di se stessi, a fissarsi in modo esclusivo sull’”oggetto del

piacere”, reificazione del rapporto, l’unico che sembra

rispondere ai bisogni immediati ed a garantire, almeno

temporaneamente, un pur fragile equilibrio. Il motivo

della dipendenza, secondo Cancrini, va cercato in un

preesistente ed importante disturbo della personalita

radicato solitamente nella prima infanzia che si manifesta

nei momenti piu delicati dello sviluppo, in particolare

dell’adolescenza: dietro ad un adulto, che vinto

dal nemico interno, distrugge la sua vita ed i suoi affetti,

c’e di solito un bambino sofferente, cresciuto con una

disperata mancanza di amore che continua a condizionare

i suoi rapporti (Cancrini, 2003). In un percorso

psicoterapeutico quel adulto puo riuscire a trovare se

stesso attraverso la mano affettivamente salda che lo

condurra nelle sale piu oscure della sua personalita fino

all’ultima stanza dove riuscira a sconfiggere la propria

paura misconoscendola, oppure comprendendola e

superandola. Il significato psicopatologico dei comportamenti

legati alla dipendenza e diventato sempre

piu chiaro con l’approfondimento degli studi legati al

funzionamento della psiche di una persona tossicodipendente

che giudica tutto cattivo o tutto buono,

senza sfumature, e con forti difficolta a cogliere le gradazioni

di positivita e negativita in una stessa persona

o in uno stesso oggetto. Le dipendenze patologiche

si strutturano, quindi, come tentativo, destinato all’insuccesso,

di ricucire una rete in grado di restituire quel

sentimento di coesione con l’altro, su cui si struttura la

felicita (Cancrini, 2003). L’esperienza di un’endovena di

eroina permette al tossicodipendente di sperimentare

e rivivere un ricordo antico di cui non riesce a separarsi,

senza purtroppo sapere che le droghe contribuiscono

ulteriormente a danneggiare la sua realta psichica (Turchi,

2003). I buchi in questo modo andranno sempre

piu ad ingrandirsi rendendo sempre piu difficile la riunificazione

di quanto e andato perduto: l’integrazione psicocorporea. Questa lesione tra psiche e corpo trova

una corrispondenza nella realta famigliare delle persone

tossicodipendenti. Il neonato che ha subito dopo la

nascita o nelle fasi successive un’assenza affettiva della

madre, sperimenta in termini corporei un buco che si

traduce in termini psichici come una perdita dolorosa

che genera uno stadio di confusione e di angoscia. Egli

cresce in una famiglia conflittuale al limite di una rottura

che pero non avviene mai. Questo si traduce come

se il senso profondo dello stare assieme fosse proprio

il conflitto, l’impossibilita di essere felici. Se a causa di

questi perenni conflitti l’assenza della madre continua,

“si struttura nel bambino una dinamica di bramosia

che trasforma il rapporto umano nel possesso rabbioso

e insaziabile di un corpo come oggetto sostitutivo

da divorare” (Turchi, 2003). Ma la rabbia diventa troppa,

come l’angoscia, e di conseguenza vanno fatte sparire

attraverso l’utilizzo delle sostanze. Purtroppo, in questo

modo, spariscono anche i bisogni affettivi legati ad una

possibile crescita e costruzione di una vita reale e armonica.

Il legame, quindi, con la sostanza serve a proteggere

la persona tossicodipendente da una separazione

insostenibile, separazione vissuta come un buco nero

in cui sprofondare, come perdita ineluttabile di ogni

possibilita di rapporto, dato l’annullamento dell’altro e

del proprio legame affettivo con esso.

L’accettazione e non il disconoscimento del buco affettivo

rappresenta bene il superamento dell’angoscia

della separazione, che allo stesso tempo segnala la

raggiunta stabilita del rapporto con l’oggetto d’amore:

integrazione dell’immagine della madre assente con

quella presente, preparando cosi l’individuo alla sua

vera nascita psicologica.

Come si vedra piu avanti nell’articolo, ho scelto di partire

con la descrizione del caso clinico dal terzo colloquio,

perche ben rappresenta l’inizio del viaggio che

ho fatto insieme al paziente tossicodipendente. Questa

scelta vuole evidenziare la mia volonta nel concedere

il tempo al paziente, ed a me stesso, per una possibile

costruzione di una rete relazionale funzionale, solida e

sana che consenta al paziente di iniziare a poggiare le

basi per la creazione di una sua propria storia. Questo

era il mio obiettivo, costruire una rete che lo liberasse

dall’angoscia del vuoto del proprio buco affettivo. Il

tutto attraverso, sia l’uso delle tecniche della terapia

Strategica Integrata, sia una particolare attenzione alla

costruzione di una relazione ottimale, ma soprattutto,

mettendo l’approccio al servizio della relazione e non il

contrario. Come sostiene De Leo, l’approccio Strategico

Integrato, infatti, si propone di sviluppare caratteristiche

di flessibilita con obiettivi e metodi orientati ad un

miglior consolidamento dei risultati strategici rispetto

alla personalita e ai problemi esistenziali del paziente.

Inquesto modo il superamento del sintomo si integra nei

processi di cambiamento e di attivazione delle risorse

personali del soggetto portatore della domanda e del

problema. Le tecniche, quindi, andranno a plasmarsi in

un continuum relazionale, sviluppandosi lungo una linea

temporale consona al paziente stesso. Da un punto

di vista controtransferale, inoltre, la mia scelta di non

concentrarmi sulla diagnosi e nel non ristrutturare/rielaborare

i movimenti e la domanda del paziente, come

si vedra piu avanti, sono il preludio alla mia costruzione

di un’ipotesi diagnostica. Ho avvertito aggressivita, ansia,

disperazione ma soprattutto tanta confusione nel

raccontare la propria vita da parte del paziente. Queste

sensazioni/emozioni mi hanno portato a dilatare la gestalt (tecnica propria della psicoterapia strategica

integrata nel riformulare e ridefinire la domanda del paziente

attraverso tutti gli elementi portati da quest’ultimo

nel setting e dalla relazione che viene a crearsi

con il terapeuta) e di conseguenza a rimandare la mia

ipotesi diagnostica. Non avevo ancora la possibilita di

“smascherarlo”, non avevamo ancora avuto il tempo di

costruire una relazione e di conseguenza la mia ipotesi

era ancora incompleta priva di alcun sostegno; rischiava

di cadere nel buco profondo della vita affettiva del

paziente stesso. Egli non aveva una vita da raccontare

e per questo motivo inizio a scrivere la storia del nostro

percorso attraverso il terzo incontro, incontro particolarmente

intenso e utile ai fini della costruzione di una

relazione e di conseguenza di un’ipotesi diagnostica.

Questo colloquio puo essere visto come il “trailer” del

suo film. La diagnosi, grazie a questa prerogativa si formera

col susseguirsi dei colloqui, dilatando in questo

modo il concetto di gestalt chiusa della terapia Strategica

Integrata ed inoltre, come vedremo piu avanti,

questa strategia temporale potra forse ritenersi una caratteristica

per lavorare con persone aventi seri e gravi

disturbi al limite se non francamente psicotici.

La tecnica come variabile del tempo, il tempo come

prerogativa per la costruzione di una relazione.

 

  1. Caso clinico

M., 37 anni, tossicodipendente da cocaina.

III colloquio (dai miei appunti)

“M. e arrivato per la prima volta con quindici minuti di

anticipo, il fatto mi stupisce ed allo stesso tempo mi

rallegra, poiche nelle due precedenti sedute era arrivato

con alcuni minuti di ritardo. Lo faccio attendere

nella sala di ingresso del servizio nonostante una sua

forte insistenza nel volere cominciare subito la seduta.

Sono convinto che sia molto importante mantenere

un setting rigido durante i primi colloqui, per ovviare

ad eventuali manipolazioni, per evitare che il paziente

abbia il controllo della situazione. Col passare degli incontri

potro tenere un settino piu morbido. Iniziamo il

colloquio ed appena si siede mi travolge verbalmente

raccontandomi di esperienze conflittuali vissute durante

la settimana. Alla mia esplicita e chiara domanda di

descrivermi con un esempio uno o piu di questi vissuti

  1. si ferma, non parla per alcuni minuti, alza gli occhi,

mi guarda e dice: non ci riesco”.

  1. e un signore di 37 anni, tossicodipendente da cocaina

con notevoli ombre sul suo passato. La prima volta

che l’ho visto sono rimasto molto colpito dal suo sguardo

cosi intenso e allo stesso tempo cosi vuoto e perso

chissa dove. Basso di statura, minuto, con pochi capelli

e quasi sempre con una lieve patina di sudore sulla pelle,

la sua agitazione ha invaso l’intero setting e di conseguenza

anche me.

(appunti) “Aggressivita, disperazione, ansia e numerosi

conflitti interni potrebbero far presumere ad un disturbo

depressivo mentre l’ansia ed i vissuti persecutori potrebbero

essere la causa di un forte abuso di cocaina.

Oggi pero gli ho somministrato alcuni test proiettivi,

quali il test della figura umana ed il test dell’albero di

Kock. Corpi duri e aggressivi con occhi spiritati ed un

albero dove il sopra si confonde con il sotto. Non lo so,

ma di sicuro e una situazione al limite. La seduta e finita

con il disegno dell’albero ed una sua forte confusione.

Gli ho chiesto di tenersela almeno per un po’, mi ha detto

di si con la testa ed e uscito dalla stanza senza professare

alcuna parola”.

Il paziente non si presentera al colloquio della settimana

dopo ed arrivera a quello ancora successivo senza

avvisare e con i suoi ormai consueti 15 minuti di anticipo.

Durante il colloquio sosterra di non ricordarsi di

avere saltato l’incontro e chiedera di raddoppiare le

sedute. Portera con se, inoltre, due bustine di zucchero

una per me ed una per lui e tirera fuori dalla borsa

un’agenda uguale alla mia, dove si segnera il colloquio

della settimana successiva.

Una persona tossicodipendente ha bisogno di essere

aiutata ad affrontare i propri buchi e le proprie mancanze

affettive. Purtroppo, come ho descritto precedentemente,

queste mancanze sono dovute ad una relazione

affettiva disturbata con la figura materna, per questo

motivo il legame materiale con la sostanza serve a proteggere

il tossicodipendente da una separazione insostenibile,

separazione vissuta appunto come un buco

nero in cui sprofondare. M. alla fine del III colloquio si

era trovato di fronte a quel buco senza parole e con una

forte confusione, a tal punto da non presentarsi al colloquio

successivo ma a quello ancora dopo in maniera

del tutto inconsapevole, ma con una forte richiesta di

aiuto.

L’assenza del paziente, successiva a questo colloquio,

ben rappresenta l’intensita emotiva vissuta durante il colloquio stesso e quindi la paura da parte del signor

  1. ad affrontare il proprio buco affettivo. Il mio vissuto

controtransferale in relazione a questa assenza e stato

di un intenso vuoto e disagio col timore di non averlo

agganciato, di non aver utilizzato al meglio le tecniche

insegnatemi dalla scuola di specializzazione e di

conseguenza di averlo perso a causa della mia stessa

confusione nel mettere a fuoco quello che era accaduto

durante la seduta. Invece, il presentarsi del paziente

al colloquio successivo a quello saltato senza per questo

averne alcun ricordo, dimostra da una parte la sua

notevole difficolta a narrarsi e quindi a costruirsi una

storia, evidenziando cosi una sua non storia di vita, e

dall’altra conferma la mia difficolta a trovare il bandolo

della matassa dove un bandolo non c’era. Iniziavo a percepire

quello che il paziente sentiva nel suo travagliato

vissuto: evitamento e negazione, assenza e mancanza

sono tutti elementi essenziali per perpetuare quella

coazione a ripetere tipica dei sistemi disfunzionali. Allo

stesso tempo, pero, il suo desiderio di voler continuare

il percorso intrapreso (aveva comprato un’agenda

uguale alla mia), rimarca l’efficacia del mio movimento

per avergli cosi dato la possibilita di vivere il tempo a

lui necessario per provare ad iniziare a costruire una relazione,

permettendogli cosi di rompere quel sistema

circolare disfunzionale. Ero riuscito con mio compiacimento

e con mio grande stupore, ad agganciarlo grazie

alla dilatazione del Tempo. Che dire poi delle bustine di

zucchero?

Come era consuetudine al servizio, per noi tirocinanti

alle prime armi, si era deciso di strutturare una prima

fase valutativa di 3-4 colloqui deputati sia alla diagnosi

sia alla creazione di una base di relazione terapeutica.

Durante questi colloqui preliminari si dovevano somministrare

alcuni test, ad esempio quello della figura

umana e quello dell’albero di Kock ed un’intervista

anamnestica accurata. Tecniche che bene si amalgamano

nell’approccio Strategico Integrato dove risulta

importante non tanto la tecnica in se, ma l’utilizzo

che ne viene fatto all’interno di un setting terapeutico

o meglio ancora all’interno dello sviluppo di una relazione

terapeutica. Nel mio particolare caso i test sono

serviti a far affiorare nel setting tutta la confusione che

provava il paziente nel raccontare e vivere la propria

vita creando, a chiusura del colloquio, un silenzio cosi

profondo che andava a richiamare un buco affettivo/

emotivo del paziente stesso. Avvenuta questa prima

fase e dopo una supervisione d’equipe e/o individuale

si poteva procedere per un primo ciclo di 10 incontri. E

cosi e avvenuto anche con il signor M.

2.1 I successivi dieci incontri

Il percorso con M. non e stato molto lungo, e durato

meno di un anno, ma non per questo e stato meno

ricco ed intenso di altre mie esperienze, anzi oggi lo

considero uno dei “viaggi” cardine del mio percorso

personale e professionale. In breve posso affermare

che l’incontro con M. e stato molto ricco di immagini

e vissuti e di come la sua e mia capacita di immaginare

ed immaginarlo diversamente e stata senza dubbio la

scintilla di un suo possibile cambiamento. Come sostiene

il costruttivismo, infatti, lo scopo di ogni psicoterapia

consiste nel condurre il paziente a cambiare il suo modo di percepire, elaborare, descrivere e comunicare

la realta, in modo tale da condurlo a passare da un rapporto

disfunzionale ad uno funzionale. La psicoterapia

si occupa, quindi, della ristrutturazione della visione

del mondo da parte del paziente, della costruzione di

un’altra realta clinica, attraverso l’utilizzo di “esperienze

emozionali correttive” (Franz Alexander, 1956).

Il paziente si e presentato, come gia precedentemente

ho accennato, con una forte ansia ed agitazione: tensione,

sudorazione, discorsi frammentati e farraginosi.

Questa costante tensione veniva contenuta attraverso

un’assunzione di 250mg di Depakin al giorno, prescrittagli

dal medico del servizio. Dipendente da cocaina da

quando aveva 19 anni, ha accompagnato l’abuso della

droga con l’alcool soprattutto durante le ore serali, prima

di andare a letto: “Quando scende il buio l’ansia mi

richiama” (M.). A tratti, tra una difficolta e l’altra nel contenere

la propria ansia durante i colloqui, notavo come

il paziente dimostrasse comunque di avere una seppur

minima ma vivida capacita di riflessione personale, nel

tentativo spesso vano di trovare una spiegazione ai

propri malesseri e di come M. dimostrasse di avere anche

un buon livello di sensibilita:

M: “Mi sento un ingenuo, uno stupido. Non e facile stare

in mezzo alla gente, farsi comandare fare il servo. Forse

sono nervoso perche ho paura di me stesso” .

  1. ha dimostrato da subito un’evidente difficolta nel

trovare la giusta distanza nelle relazioni, con frequenti

oscillazioni tra vicinanza ed allontanamento dall’altro;

inizialmente si presentava in anticipo ai colloqui ed altri

li saltava senza avvisare. L’unico sostegno diventava

inesorabilmente la sostanza ed in questo caso la cocaina.

Durante il quarto colloquio si e verificato un episodio

molto importante del percorso con il paziente. Nella

settimana precedente e venuto a mancare il suo fratello

maggiore a causa di una malattia infettiva molto

grave. M. ha vissuto il lutto in maniera del tutto inaspettata:

meno aggressivo ed agitato del solito, con un

evidente livello di sensibilita; si sentivano nella stanza

le sue “scarpe pesanti” accompagnate da una sua lucidita

quasi surreale. Grazie alla morte di suo fratello M.

e riuscito a vivere un risveglio psichico sorprendente,

dettato da un senso di responsabilita che per forza di cose la morte da alla vita. Per M. la morte del fratello

ha rappresentato una possibile rinascita delle sue emozioni.

Durante il successivo colloquio, infatti, avvenuto

dopo il funerale, M. si e lasciato andare alla commozione

dando cosi all’immagine che avevo di lui un senso di

umanita mai provato fino allora.

La morte di un familiare per una persona come M. ben

esprime e caratterizza gli aspetti psicologici della tossicodipendenza.

Questo evento riempie paradossalmente

il buco affettivo, dando la possibilita alla persona

tossicodipendente di vivere sane emozioni, riscoprendo

cosi i propri affetti. M. si era concesso di vivere la

sua condizione depressiva riuscendo cosi finalmente a

chiedere aiuto al servizio.

La concezione di base del modello costruttivista, ed in

particolare della psicoterapia Strategica Integrata, sostiene

che la risoluzione del disturbo richieda la rottura

di quel sistema circolare di retroazioni tra soggetto e

realta che alimenta la problematicita della situazione, e

una sua ridefinizione, con la conseguente modifica delle

percezioni e delle concezioni del mondo che inducono

le risposte disfunzionali (Nardone, 1997). Nei successivi

incontri, infatti, M. non si e presentato piu con i suoi

ormai consueti 15 minuti di anticipo e soprattutto non

ha saltato piu le sue sedute fino alla fine del primo ciclo dei 10 incontri. Il mio aver visto un’immagine diversa ed

avergliela riportata verbalmente attraverso una ridefinizione

di quello che era avvenuto, sottolineando inoltre

la sua appropriata modalita di reazione, hanno dato

ad M. la possibilita di agganciarsi ad una nuova idea di

se stesso, ad una nuova possibilita di scoprirsi diverso.

Dopo la perdita del fratello, le sedute si sono concentrate

soprattutto nell’aiutarlo a non perdere quella ritrovata

immagine cosi preziosa ed importante. Ci sono

stati in quel periodo chiari tentativi di regressione da

parte del paziente nel ritornare a quel sistema circolare

disfunzionale, come se l’angoscia lo risucchiasse indietro

nel tentativo di riprendere il controllo e cosi da catapultarlo

nei propri buchi neri.

M.: “Voglio stare bene, ma in questa settimana c’e

stato un brutto temporale. Qualche persona mi fissa e

mi punta; mi viene il sangue alla testa!”.

T.: ”Si ricorda chi fossero e dove si trovava?”

M.: ”Non mi ricordo…” Oggi rivedo un me stesso frustrato ed arrabbiato. Questa

regressione ha generato in me un forte odio verso

la dipendenza stessa, come un tragico tentativo di far

fronte al mio senso di impotenza nei confronti di questa

schiavitu patologica. Rivedevo in M. e nel percorso

che abbiamo intrapreso assieme, tutta la mia difficolta

nel credere che si potesse uscire da una tale condizione

patologica. Avevo paura che questo non fosse possibile,

avevo paura di non riuscire a trovare “la giusta distanza”

per costruire un’ottimale reazione psicoterapeutica. Lo

volevo con tutte le mie forze, ma pensavo al tempo, che

questo non potesse essere possibile e per questo motivo

urlavo tutta la mia disperazione.

T.: “Lei e fermo da cinque sedute, non e vero che

vuole cambiare. Lei si prende in giro e mi prende in giro.

Quindi veda lei cosa fare, o accetta la sua condizione o

se ne vada che qui non perdiamo tempo”.

M.: “Va bene…”

Il paziente non e venuto al decimo ed ultimo colloquio.

Pensavo ancora una volta di avere fallito; vivevo l’assenza

come un mio personale fallimento ed una forte

angoscia del vuoto. M. stava cercando di farmi sentire i

suoi particolari vissuti emotivi/relazionali e ci stava riuscendo.

Non avrei dovuto smascherarlo, non era ancora

il momento opportuno. Era come se mi stesse dicendo:

“Non hai ancora capito qual e il mio problema?”. Allo

stesso tempo questa mia volonta era dettata dalla mia

frustrazione personale nel sentire e percepire una stasi

evolutiva, come se la costruzione della relazione si fosse

bloccata in un vortice senza fine; la pellicola del film

si era inceppata, ripetendo la stessa scena all’infinito.

Invece, M. si e ripresentato dopo due settimane senza

aver preso un appuntamento, nello stesso giorno ed

alla stessa ora del nostro abituale colloquio settimanale.

In questo modo il paziente mi comunicava come il mio

movimento non fosse stato un fallimento, bensi uno

sbaglio. Avevo sbagliato e sbagliare fa parte della vita

e del vivere una relazione. M. iniziava inconsciamente

a muoversi con sapienza all’interno di una relazione.

Non credevo, infatti, ad un suo ritorno, pensavo che

non fosse ancora pronto ad affrontare se stesso. Inoltre,

non pensavo in quel momento che la mia rabbia fosse

dovuta alla mia angoscia. Ora capisco come tale vissuto

controtransferale si fosse presentato dinanzi all’impossibilita

di riuscire a liberarmi dalle mie dipendenze, per

l’angoscia di affrontare il mio personale buco affettivo,

credevo che fosse il paziente e non io quello preso

dall’angoscia di affrontare i propri buchi affettivi. M. si

è dimostrato più coraggioso di quanto credessi, si era

concesso il tempo di decidere, iniziava a saper vivere

nel tempo, almeno inconsciamente. I ruoli si erano invertiti;

  1. aveva visto un’immagine diversa di me, ero

fragile ed impaurito e forse proprio grazie a questo più

umano e simile a lui, dandogli cosi la possibilità di vedersi

umano lui stesso.

Si potrebbe quasi affermare come tale movimento non

sia stato altro che un “rispecchiamento rogersiano”, la

mia ansia ha rispecchiato quella di M. e questo ha dato

a noi la possibilità di costruire una relazione empatica

(tecnica del mirroring: rispecchiamento delle assunzioni

del cliente, Roger, 1997).

Come ho detto, il paziente si e presentato al colloquio

come se nulla fosse, puntuale e disponibile, agitato e ansioso, giocando in maniera frenetica con due pacchetti

di sigarette (sempre due…). Mi ha comunicato la

sua decisione di volere stare bene e di volere stare più

tranquillo. Gli ho rimandato la mia felicità nel rivederlo

al servizio e soprattutto di come la sua agitazione ora la

si potesse leggere come un elemento positivo in quanto

espressione della paura e difficoltà della propria scelta,

la scelta di voler provare a cambiare. A fine seduta,

con mio notevole stupore, mi ha detto di volermi regalare

una cassetta di pesce fresco e non contento mi ha

invitato a pranzo dalle sue parti, quando questo fosse

stato possibile. M., al termine del primo ciclo dei 10 incontri,

riesce a prendersi il tempo per vivere la sua vita e

quindi per costruirsi una relazione, una storia: “Quando

questo fosse stato possibile…”.

La capacità di affidarsi all’altro per ritrovare la fiducia in

se stessi e di conseguenza per non tentare più di riempire

il proprio buco, di oscurare la propria angoscia, invece

per ascoltare e vivere la propria affettività, risiede

proprio nell’essere riusciti ad accettare la propria condizione

di fragilità e solitudine, caratteristiche queste

consoni ad ogni singolo essere umano. Accettazione

che conferisce forza e coraggio ma soprattutto una

nuova nascita psichica. Uscire dalla propria costrizione

mentale accettando l’aiuto dell’altro, ascoltare la propria

paura senza per questo doverla nascondere, sono

movimenti chiari e nitidi del raggiungimento di un processo

di separazione ed individuazione ottimale e funzionale.

Processo questo fino ad allora mai accettato e

mai iniziato a causa dei profondi buchi affettivi di cui il

tossicodipendente e vittima piu di ogni altra persona.

Il signor M. si e presentato al suo diciottesimo colloquio

con una forte richiesta di aiuto e di necessita nel trovare

un lavoro. Siamo intorno a meta luglio e lo rendo

partecipe che dopo ancora un incontro avremmo fatto

la pausa estiva per poi ritrovarci successivamente a

settembre. Nel contempo ne ho approfittato per rimandargli

alcune mie importanti considerazioni, ristrutturazioni

e rielaborazioni dei suoi particolari movimenti

avvenuti fino allora sia all’interno sia all’esterno del

setting terapeutico, sottolineando in particolare un suo

forte livello di ansia in relazione ai vissuti persecutori.

  1. non ha commentato ed e rimasto impassibile, quasi

come se la cosa non lo riguardasse o meglio ancora

come se non gli stessi dicendo nulla di nuovo.

Ora e solo ora e finalmente avvenuto lo “smascheramento”,

e solo ora poteva avvenire senza che quest’ultimo

generasse un allontanamento dal servizio del paziente.

Tale tecnica, tipica della psicoterapia Strategica

Integrata, di solito avviene durante il primo incontro.

Si potrebbe dire, strategicamente parlando, che finalmente

si era chiuso il primo colloquio; la gestalt era

stata fatta e questo ha permesso ad M. di svincolarsi e

di porre fine a quel sistema circolare di retroazioni tra

lui e la realtà con la conseguente modifica delle percezioni

e delle concezioni del mondo che inducevano le

sue risposte disfunzionali ed il circolo vizioso della sua

vita. Per l’approccio Strategico Integrato, infatti, il primo

colloquio e una gestalt chiusa che si apre e si chiude,

nel senso che alla fine del primo colloquio già si saprà

come sviluppare l’intervento terapeutico con il paziente,

qualora egli decidesse di continuare; diversamente,

il terapeuta avrà fatto il suo lavoro avendo indicato al avrà fatto il suo lavoro avendo indicato al

paziente quali sono, a suo avviso, le aree da indagare e

sulle quali e possibile lavorare in chiave di ristrutturazione

(Gallizioli 2007).

  1. ha preso fiducia e coraggio senza per questo continuare

necessariamente il proprio percorso psicoterapeutico.

Il paziente, infatti, non si e presentato al

colloquio prima delle vacanze estive ma solo dopo di

esse attraverso un preventivo appuntamento telefonico.

  1. ha saltato ancora una volta un colloquio, ma

questa volta le mie reazioni controtransferali non sono

state di vuoto e fallimento; il paziente aveva timore nel

sentirsi finalmente libero e capace di costruire delle relazioni.

Come non spaventarsi di fronte ad un cambiamento

cosi importante? Avevamo costruito una rete di

sostegno dove poter finalmente poggiare le basi per la

costruzione della sua storia. M. non aveva più paura di

affrontare il proprio buco affettivo e finalmente di vivere.

L’estate e passata indenne portando con se nuove opportunità

lavorative grazie alla collaborazione dell’assistente

sociale del servizio.

M.: “Durante agosto ho girato un po’, in maniera tranquilla,

anche se devo ammettere che ho avuto ancora

dei pensieri che mi tormentavano. Ho fatto un po’ di

sport, non molto… pero mi sento meglio fisicamente.

Piano piano sento la liberta. Mi sento una persona onesta,

sto cercando un posto di lavoro e l’indipendenza

personale. Voglio comprarmi un furgone per

aprirmi un’attività, ma soprattutto voglio essere furbo!”.

Ancora una volta gli rimando con semplicità e serenità

la concretezza dei suoi cambiamenti, ristrutturando

i suoi movimenti in chiave evolutiva ed espressiva e

rimandandogli al contempo la forza delle sue proprie

risorse nell’essersi finalmente costruito la possibilità di

narrarsi e di conseguenza di vedersi in un futuro finalmente

possibile.

Dopo questo incontro non si e presentato fino a novembre

ed in quell’occasione e venuto soltanto per comunicare

il suo effettivo inserimento lavorativo.

Oggi M. lavora ancora e contemporaneamente frequenta

da piu di un anno un centro diurno a media soglia

per tossicodipendenti, dove ha avuto ed ha tuttora,

a quanto riferisce il servizio, la possibilità di consolidare

il proprio cambiamento attraverso un “allenamento” del

proprio nuovo copione comportamentale (De Leo, Dighera

e Gallizioli, 2005), ristrutturato durante il percorso

psicoterapeutico e costantemente monitorato dai

professionisti del servizio.

  1. Conclusioni

Il ritorno dall’estate e coinciso con il desiderio di cambiamento,

  1. desiderava entrare nel suo personale vissuto

emotivo per cercare di recuperare l’affettività da

troppo tempo inespressa, aveva vinto la sua paura. Il

paziente si e trovato di fronte una persona che gli ha

concesso di viversi nel Tempo, dandogli la forza per

uscire dal proprio guscio, stemperando cosi l’angoscia

nel non riuscire a stare nel tempo della vita. Sotto la

parola cambiamento si nasconde proprio il concetto di

Tempo che per Hegel non e altro che “il principio medesimo

dell’io”, su cui si poggiano le costruzioni e le fondamenta

proprie dell’io (Heidegger, 2005), senza le quali

quest’ultimo non potrebbe che ridursi ad una mera copia inadatta alla vita conducendo l’individuo alla malattia.

Per Heidegger, inoltre, come ben evidenzia nella

sua opera “Essere e Tempo” (1927) nel concetto di tempo

viene riconosciuto il primato dell’avvenire in termini

di possibilità e progettazione: avvenire, dice Heidegger,

non significa un’ora che non e ancora divenuta attuale e

che lo diverrà, ma l’infuturamento per cui l’Esserci perviene

a se stesso, in base al suo piu proprio poter essere.

E distingue un Tempo autentico in cui l’essere progetta

la propria possibilità privilegiata, dal Tempo inautentico

che è quello dell’esistenza banale, in cui il Tempo diventa

una successione infinita di istanti. Il rigido circolo tra

passato e futuro può essere sciolto solo con l’introduzione

del concetto del possibile (Heidegger, 2005).

  1. e riuscito ad affidarsi all’altro ed in particolare al servizio,

dandosi cosi la possibilità di rompere il proprio

circolo disfunzionale tra passato e futuro attraverso un

incontro psicoterapeutico che ben gli ha dato la possibilità

di prendersi il tempo, scostandosi cosi dalla propria

abituale realtà dove tutto e tutti gli negavano proprio

la possibilità di costruirsi la propria vita. Il paziente

ora ha finalmente il Tempo per costruirsi la sua storia.

DIAGNOSI – Disturbo del Carattere Fobico con scivolamento

sul versante Borderline:

“Comportamento evitante con una paura irrazionale legata

ad un oggetto concreto. Apprensione, insicurezza,

mancanza di cura di se stesso dovuta ad una relazione

iperprotettiva della madre con un conseguente blocco

dell’esplorazione del mondo. Tutto si focalizza sul

bisogno del materiale, che ricerca una soddisfazione

bramosa, ma senza mai poterla soddisfare perche non

potrebbe mai sostenerlo” (Turchi, 2007; Lalli, 2000). Data questa diagnosi e l’analisi sopra effettuata, si puo

facilmente intuire come sarebbe stato un profondo

errore ristrutturare i movimenti e le dinamiche del paziente

durante i suoi primi tre incontri deputati alla diagnosi,

come precedentemente evidenziato. Come può

una persona malata di un Disturbo del Carattere Fobico

accettare una ristrutturazione? Come avrebbe potuto

sentirsi accolto nel momento stesso in cui veniva smascherato?

A riguardo Milton Erickson affermava con

estrema semplicità: accettate ciò che il paziente vi porta.

Si riferisce, con questo, alla necessita che il terapeuta

impari a comunicare con il paziente nel linguaggio di

quest’ultimo, invece di insegnarli un nuovo modo di

pensare e concettualizzare, per provocare cosi l’effettivo

cambiamento solo dopo che sia avvenuto il processo

di cambiamento. La capacità, continua Erickson,

di adottare la prospettiva della realtà del paziente e essenziale

alla psicoterapia. In questo modo la resistenza

cessa di essere un ostacolo e diviene la strada maestra

per il cambiamento (Watzlawick P., Nardone G., 1997).

La psicoterapia Strategica, inoltre, sottolinea bene questo

aspetto affermando come sia fondamentale l’assunzione

del linguaggio, della “posizione” del paziente

o della sua “visione” del mondo (Nardone, 1997).

Ho realizzato attraverso questo percorso, la possibilità

che potrebbe avere la psicoterapia Strategica Integrata

nel lavorare sulle modalità borderline, concedendosi

il Tempo di dilatare le proprie tecniche, inserendole

gradualmente nella realtà propria del malato stesso,

permettendosi quindi di viversi le reazioni controtransferali

in un susseguirsi di movimenti e dinamiche

consone ai pazienti gravi all’interno di un setting psicoterapeutico.

Ammorbidire il setting, dilatare la gestalt,

rimandare le prescrizioni, diagnosticare attraverso le

reazioni controtransferali durante una serie anche numerosa

di “primi colloqui”, possono dare la possibilità al

paziente grave di affidarsi al terapeuta ed al terapeuta

di affidarsi al paziente entrando in sintonia con i loro

reciproci vissuti e le loro reciproche emozioni. Possono

essere questi, a mio avviso, i presupposti per considerare

nuove prospettive di lavoro psicoterapeutico da parte

della psicoterapia Strategica Integrata. Integrazione

deriva dal latino integer (integro): “rendere completo

dal punto di vista sia quantitativo che qualitativo, per

lo piu mediante l’aggiunta di opportuni elementi complementari”;

“far convivere in modo armonico”; “riunire

a fini funzionali, fondere, inglobare” (Devoto Oli, 2004).

Questa definizione ben sottolinea l’aggancio da parte

della Psicoterapia Strategica Integrata ad altri approcci

e modelli psicoterapeutici tra i quali troviamo anche

quello più propriamente analitico, dove sappiamo che

l’inconscio trova uno spazio ed un tempo. Non credo

che la Psicoterapia Strategica Integrata possa e debba

spingersi cosi oltre, ma credo che nella sua evoluzione

di prassi ed espressiva metta in secondo piano l’importanza

anche simbolica dell’inconscio, escludendo

cosi gli aspetti, i significati ed i vissuti più profondi che

influenzano le relazioni umane. Tutto questo, a mio

modesto avviso, rischia di porre l’approccio Strategico

Integrato su un piano fragile ed instabile; non consentendogli,

inoltre, di lavorare con quelle persone con disturbi

psicotici o al limite, dove la forza comunicativa

e costruttiva di quest’ultimi risiede proprio su un livel-

lo più profondo ed inconscio delle relazioni. Secondo

Watzlawick, l’interpretazione in terapia non e un limite

poichè non ha importanza la sua veridicità, ma la sua

funzionalità nella possibilità di creare un Cambiamento

(Watzlawick, 1997). L’attenzione ai vissuti controtransferali

del terapeuta all’interno di un percorso terapeutico

non scalfisce in alcun modo l’approccio Strategico,

anzi gli permette di utilizzare strategicamente una

risorsa molto importante, andando cosi a migliorare e

rafforzare la qualità stessa del percorso. Tutto questo

non fa altro che dare risalto all’importanza del Tempo;

di concedere al paziente, al terapeuta ed alla relazione

tra i due. Di muoversi, agire e comunicare all’interno di

uno spazio meno angusto, dandosi cosi la possibilità di

strutturarsi all’interno di un ottimale percorso psicoterapeutico,

senza per questo venire meno all’obiettivo.

L’obiettivo in questi particolari casi risiede proprio nel

dare al paziente la possibilità di viversi una relazione sana, evitando che questa lo incaselli eccessivamente

in una diagnosi; senza sentire il bisogno da parte della

realtà stessa di ristrutturarlo. La ristrutturazione avverra

all’interno di un percorso, di un vissuto, che poco a

poco ammorbidirà le resistenze del paziente attraverso

la fiducia nel vivere una relazione col terapeuta, che

cosi riuscirà a condurlo verso i propri nodi e le proprie

peculiarità individuali, costruendo le basi per un’individuazione

del paziente. Bisogna entrare nel proprio

vissuto psichico senza voler annullare il proprio buco

affettivo, bensì per volerlo ascoltare ed integrare a se.

Per fare questo, pero, non basta affidarsi ad un bravo

psicoterapeuta, bisogna che il paziente sia pronto a

darsi il Tempo necessario ad esplorare e trovare il proprio

dolore represso, altrimenti l’angoscia lo sopraffarà

e lo porterà inevitabilmente ad oscurare ancora una

volta il proprio buco affettivo, minando cosi la riuscita

della propria crescita evolutiva.

 

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